Osservazioni sul cielo di un napoletano in esilio sulla Colchide

 
          di Antonio Dal Canton

 

Ci sono posti in cui il cielo si impara a scuola, è un luogo metafisico, un oggetto di fede. Fin da piccolo ti dicono che c'è e tu ci credi, anche perché è da li che piove, li sopra si sentono passare gli aerei, da li sbucano ogni tanto uccelli atterrando guardinghi con un'aria persa. Qualcuno fortunato dice di averlo visto davvero in un giorno di Fohn e racconta esagerazioni e bugie improbabili, di colori azzurri o addirittura strisciati di un verde diaccio in albe invernali o di soli al tramonto rossi come tarocchi. I più tramandano racconti dei nonni ed i più invidiati hanno appesa nel soggiorno una foto in cui si vede, c'è ed è più alto di quanto si possa immaginare.
 
In altri posti il cielo è talmente ovvio e ingombrante che da segno di sé ancor prima che uno nasca gettando fasci di luce che trapassano la pancia e le sottili palpebre ancora chiuse spandendosi in una penombra rosata. Qui la gente considera normale alzare gli occhi e non sentirsi sbattuto indietro lo sguardo da una barriera grigia come un muro di cemento. Come tutti gli inconsapevoli di una fortuna che non hanno fatto niente per meritare, questa gente pensa che sia normale essere baciati dal sole e finisce per degnare a stento di attenzione alcuni trucchi che il cielo utilizza per ricordare la sua esistenza: ecco, ad esempio certi sipari barocchi di nuvole gonfie e ricciolute che sparano tagli di luce dai confini netti come se fossero lame incandescenti o notti di novilunio in cui tutte le stelle sono in libera uscita. C'è anche un posto che pochi portano dentro di sé, dove esiste un cielo personale virtuale, dovunque si trovino...
 

La vita non è che un colpo di vento
un gorgo cui tutto sembra ruotare attorno
ma non è che aria
e di sé lascia breve memoria
qualche foglia
caduta.